Amare è servire – Testimonianza dell’incontro “Servire gli ammalati”
Il 21 gennaio è stata inaugurato il ciclo d’incontri “Amare è servire”, che prende spunto dall’aspetto tipicamente unitalsiano del servizio, ispirato dalle parole del Vangelo di Matteo: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me». Il tema del servizio è declinato in diversi aspetti grazie alle storie che sono di volta in volta raccontate, permettendo di scoprire che vivere l’Amore di Gesù nel quotidiano non è impossibile.
La serata è stata aperta dalla riflessione di don Alessandro, che, riprendendo l’incontro di Gesù con l’emorroissa, ha ricordato quanto sia importante trovare sempre il modo di entrare in contatto con Dio. Creando un paragone fra l’emorroissa, considerata impura, e la situazione attuale, nota che si stanno creando numerose situazioni di lontananza e di solitudine. Ma, anche nella solitudine, il Signore è presente: sta a noi cercarlo. Don Alessandro conclude con l’esortazione a essere testimoni di questo continuo contatto che Dio vuole avere con l’uomo, perché, come cristiani e come unitalsiani, abbiamo il compito di far conoscere il Signore agli altri.
Ospite della serata è stato Alfredo Settimo, socio unitalsiano da tanti anni, che ha raccontato due aspetti, opposti ma complementari: il servizio agli ammalati e l’essere a sua volta accudito come malato. Che sono anche i due aspetti che ogni unitalsiano incontra durante la sua vita associativa.
Alfredo esordisce con il racconto della sua vita lavorativa come soccorritore professionale che ha intrapreso 25 anni fa, sentendo che la sua vita doveva essere votata al servizio verso gli altri. La sua vocazione, nata anche grazie al servizio svolto accanto ai malati durante i Pellegrinaggi, si è trasformato in un lavoro vero e proprio.
La pandemia ha, però, aperto una ferita nel suo animo. La situazione ha imposto l’utilizzo di dispositivi, ma proprio da dietro agli occhialoni che era costretto a indossare vedeva la paura, la difficoltà e la solitudine negli occhi di chi soccorreva. E se, in un primo momento, cercava di fare forza ai malati, si è ritrovato più tardi a non riuscire nemmeno a guardarli negli occhi, sentendo venire meno anche il suo essere unitalsiano.
Confessa di aver provato una grande solitudine.
Un episodio che l’ha toccato è stato l’aver scortato i camion militari che, partiti da Bergamo, trasportavano i deceduti per COVID. Fortemente colpito nel vedere le bare spoglie, senza nessuno accanto, ha sentito il bisogno di dire un “l’eterno riposo” per tutti quei morti così soli. Un’altra preghiera che gli dava forza era l’Ave Maria, detto col cuore girando e rigirando il rosario che porta al dito regalatogli dalla moglie Chiara.
Con il cambiare delle modalità di gestione dei pazienti, diventate sempre più ciniche, dunque troppo lontano dal suo sentire, Alfredo ha deciso di abbandonare il suo lavoro al 118.
Per poter dare comunque il suo contributo, ha intrapreso una nuova occupazione, quella di rappresentate per una ditta di dispositivi di protezione sanitari. Questa professione gli ha permesso di girare l’Italia, incontrare molta gente e ascoltare i racconti di tanti operatori sanitari, diventando così la spalla su cui sfogarsi, la stessa di cui anche lui aveva avuto bisogno nei mesi precedenti.
A novembre, al ritorno da un viaggio, si accorge di avere i sintomi tipici della malattia, confermata poi da un tampone positivo. Da lì, si è dovuto completamente isolare dalla famiglia, fino ad arrivare al ricovero a seguito di un esame che ha confermato una polmonite interstiziale.
La degenza in ospedale ha acuito il senso di solitudine provato giù nei mesi precedenti. Essere accudito da infermiere chiuse nei loro camici e coperte da maschere, che entravano nelle stanze solo per somministrare le terapie o portare i pasti, hanno messo Alfredo nella condizione di sentirsi nei panni delle persone che lui stesso aveva soccorso fino a qualche settimana prima. Piccola soddisfazione quotidiana era l’aiutare il vicino di letto, un uomo anziano, che da solo aveva difficoltà a utilizzare il cellulare per contattare la famiglia.
Questa esperienza gli ha dimostrato ancora una volta quanto sia importante per un malato avere accanto qualcuno che lo aiuti, che gli faccia compagnia, che gli dica una parola di conforto.
Fortunatamente e nonostante ne porti ancora le conseguenze, la malattia è ormai passata. E la voglia di servire gli altri è tornata: ha deciso, infatti, di proporsi come soccorritore volontario.
Ad arricchire la testimonianza interviene, poi, Maurizio Fadini, responsabile del Gruppo di Castellanza (Sottosezione di Busto Arsizio). Maurizio mostra subito un aspetto importante del servizio unitalsiano: quello svolto all’interno della propria famiglia. Accudisce, infatti, da tanti anni la propria mamma. Anche lui ha votato la sua vita all’aiuto agli altri: il volontariato sia con l’Unitalsi sia in parrocchia, in qualità di ministro straordinario dell’Eucarestia, l’ha portato a essere a contatto con numerosi malati e anziani, ai quali ha sempre portato una parola di conforto e ai quali ha dedicato gran parte del suo tempo., grazie al volontariato.
Maurizio, nei primi mesi del 2020, è stato colpito dal virus, che non l’ha lasciato per 2 mesi, obbligandolo per 20 giorni anche in ospedale. Durante la degenza, racconta di aver sentito molto vicina Maria, che ha invocato nei momenti di più forte sofferenza. Quella stessa sofferenza che gli ha fatto toccare con mano la fragilità umana. La fede è stata di grande aiuto e l’affidamento a Maria e Gesù è stato un’àncora, soprattutto nei momenti più difficili della malattia. La vera forza sono state le parole di Gesù: «Sia fatta la tua volontà».