Messaggio del Santo Padre Francesco per la XXIX Giornata Mondiale del Malato
Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli (Mt 23,8). La relazione di fiducia alla base della cura dei malati
Cari fratelli e sorelle!
La celebrazione della XXIX Giornata Mondiale del Malato, che ricorre l’11 febbraio 2021, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes, è momento propizio per riservare una speciale attenzione alle persone malate e a coloro che le assistono, sia nei luoghi deputati alla cura sia in seno alle famiglie e alle comunità. Il pensiero va in particolare a quanti, in tutto il mondo, patiscono gli effetti della pandemia del coronavirus. A tutti, specialmente ai più poveri ed emarginati, esprimo la mia spirituale vicinanza, assicurando la sollecitudine e l’affetto della Chiesa.
1. Il tema di questa Giornata si ispira al brano evangelico in cui Gesù critica l’ipocrisia di coloro che dicono ma non fanno (cfr Mt 23,1-12). Quando si riduce la fede a sterili esercizi verbali, senza coinvolgersi nella storia e nelle necessità dell’altro, allora viene meno la coerenza tra il credo professato e il vissuto reale. Il rischio è grave; per questo Gesù usa espressioni forti, per mettere in guardia dal pericolo di scivolare nell’idolatria di sé stessi, e afferma: «Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (v. 8).
La critica che Gesù rivolge a coloro che «dicono e non fanno» (v. 3) è salutare sempre e per tutti, perché nessuno è immune dal male dell’ipocrisia, un male molto grave, che produce l’effetto di impedirci di fiorire come figli dell’unico Padre, chiamati a vivere una fraternità universale.
Davanti alla condizione di bisogno del fratello e della sorella, Gesù offre un modello di comportamento del tutto opposto all’ipocrisia. Propone di fermarsi, ascoltare, stabilire una relazione diretta e personale con l’altro, sentire empatia e commozione per lui o per lei, lasciarsi coinvolgere dalla sua sofferenza fino a farsene carico nel servizio (cfr Lc 10,30-35).
2. L’esperienza della malattia ci fa sentire la nostra vulnerabilità e, nel contempo, il bisogno innato dell’altro. La condizione di creaturalità diventa ancora più nitida e sperimentiamo in maniera evidente la nostra dipendenza da Dio. Quando siamo malati, infatti, l’incertezza, il timore, a volte lo sgomento pervadono la mente e il cuore; ci troviamo in una situazione di impotenza, perché la nostra salute non dipende dalle nostre capacità o dal nostro “affannarci” (cfr Mt 6,27).
La malattia impone una domanda di senso, che nella fede si rivolge a Dio: una domanda che cerca un nuovo significato e una nuova direzione all’esistenza, e che a volte può non trovare subito una risposta. Gli stessi amici e parenti non sempre sono in grado di aiutarci in questa faticosa ricerca.
Emblematica è, al riguardo, la figura biblica di Giobbe. La moglie e gli amici non riescono ad accompagnarlo nella sua sventura, anzi, lo accusano amplificando in lui solitudine e smarrimento. Giobbe precipita in uno stato di abbandono e di incomprensione. Ma proprio attraverso questa estrema fragilità, respingendo ogni ipocrisia e scegliendo la via della sincerità verso Dio e verso gli altri, egli fa giungere il suo grido insistente a Dio, il quale alla fine risponde, aprendogli un nuovo orizzonte. Gli conferma che la sua sofferenza non è una punizione o un castigo, non è nemmeno uno stato di lontananza da Dio o un segno della sua indifferenza. Così, dal cuore ferito e risanato di Giobbe, sgorga quella vibrante e commossa dichiarazione al Signore: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5).
3. La malattia ha sempre un volto, e non uno solo: ha il volto di ogni malato e malata, anche di quelli che si sentono ignorati, esclusi, vittime di ingiustizie sociali che negano loro diritti essenziali (cfr Enc. Fratelli tutti, 22). L’attuale pandemia ha fatto emergere tante inadeguatezze dei sistemi sanitari e carenze nell’assistenza alle persone malate. Agli anziani, ai più deboli e vulnerabili non sempre è garantito l’accesso alle cure, e non sempre lo è in maniera equa. Questo dipende dalle scelte politiche, dal modo di amministrare le risorse e dall’impegno di coloro che rivestono ruoli di responsabilità. Investire risorse nella cura e nell’assistenza delle persone malate è una priorità legata al principio che la salute è un bene comune primario. Nello stesso tempo, la pandemia ha messo in risalto anche la dedizione e la generosità di operatori sanitari, volontari, lavoratori e lavoratrici, sacerdoti, religiosi e religiose, che con professionalità, abnegazione, senso di responsabilità e amore per il prossimo hanno aiutato, curato, confortato e servito tanti malati e i loro familiari. Una schiera silenziosa di uomini e donne che hanno scelto di guardare quei volti, facendosi carico delle ferite di pazienti che sentivano prossimi in virtù della comune appartenenza alla famiglia umana.
La vicinanza, infatti, è un balsamo prezioso, che dà sostegno e consolazione a chi soffre nella malattia. In quanto cristiani, viviamo la prossimità come espressione dell’amore di Gesù Cristo, il buon Samaritano, che con compassione si è fatto vicino ad ogni essere umano, ferito dal peccato. Uniti a Lui per l’azione dello Spirito Santo, siamo chiamati ad essere misericordiosi come il Padre e ad amare, in particolare, i fratelli malati, deboli e sofferenti (cfr Gv 13,34-35). E viviamo questa vicinanza, oltre che personalmente, in forma comunitaria: infatti l’amore fraterno in Cristo genera una comunità capace di guarigione, che non abbandona nessuno, che include e accoglie soprattutto i più fragili.
A tale proposito, desidero ricordare l’importanza della solidarietà fraterna, che si esprime concretamente nel servizio e può assumere forme molto diverse, tutte orientate a sostegno del prossimo. «Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo» (Omelia a La Habana, 20 settembre 2015). In questo impegno ognuno è capace di «mettere da parte le sue esigenze e aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili. […] Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone» (ibid.).
4. Perché vi sia una buona terapia, è decisivo l’aspetto relazionale, mediante il quale si può avere un approccio olistico alla persona malata. Valorizzare questo aspetto aiuta anche i medici, gli infermieri, i professionisti e i volontari a farsi carico di coloro che soffrono per accompagnarli in un percorso di guarigione, grazie a una relazione interpersonale di fiducia (cfr Nuova Carta degli Operatori Sanitari [2016], 4). Si tratta dunque di stabilire un patto tra i bisognosi di cura e coloro che li curano; un patto fondato sulla fiducia e il rispetto reciproci, sulla sincerità, sulla disponibilità, così da superare ogni barriera difensiva, mettere al centro la dignità del malato, tutelare la professionalità degli operatori sanitari e intrattenere un buon rapporto con le famiglie dei pazienti.
Proprio questa relazione con la persona malata trova una fonte inesauribile di motivazione e di forza nella carità di Cristo, come dimostra la millenaria testimonianza di uomini e donne che si sono santificati nel servire gli infermi. In effetti, dal mistero della morte e risurrezione di Cristo scaturisce quell’amore che è in grado di dare senso pieno sia alla condizione del paziente sia a quella di chi se ne prende cura. Lo attesta molte volte il Vangelo, mostrando che le guarigioni operate da Gesù non sono mai gesti magici, ma sempre il frutto di un incontro, di una relazione interpersonale, in cui al dono di Dio, offerto da Gesù, corrisponde la fede di chi lo accoglie, come riassume la parola che Gesù spesso ripete: “La tua fede ti ha salvato”.
5. Cari fratelli e sorelle, il comandamento dell’amore, che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli, trova una concreta realizzazione anche nella relazione con i malati. Una società è tanto più umana quanto più sa prendersi cura dei suoi membri fragili e sofferenti, e sa farlo con efficienza animata da amore fraterno. Tendiamo a questa meta e facciamo in modo che nessuno resti da solo, che nessuno si senta escluso e abbandonato.
Affido tutte le persone ammalate, gli operatori sanitari e coloro che si prodigano accanto ai sofferenti, a Maria, Madre di misericordia e Salute degli infermi. Dalla Grotta di Lourdes e dagli innumerevoli suoi santuari sparsi nel mondo, Ella sostenga la nostra fede e la nostra speranza, e ci aiuti a prenderci cura gli uni degli altri con amore fraterno. Su tutti e ciascuno imparto di cuore la mia benedizione.
Roma, San Giovanni in Laterano, 20 dicembre 2020, IV Domenica di Avvento.
Francesco
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Le storie delle persone sconosciute al grande pubblico e la pandemia di Coronavirus
“C’è una veste bianca anche per noi”
un nuovo libro di Vittore De Carli edito dalla Libreria Editr ice Vaticana
C’è una veste bianca anche per noi (pag. 130; Euro 10,00) il nuovo volume edito dalla Libreria Editrice Vaticana – Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, a firma di Vittore De Carli, «non è un libro da leggere, da studiare», o per imparare a «fare» qualcosa. Questo «è un libro per conversare». Per avviare un dialogo, per creare e coltivare un’amicizia, per seminare domande e risposte, per cercare insieme «una sapienza più alta, un pensiero più umile, una preghiera più sincera». Per scoprire, insieme, che «c’è una veste bianca anche per noi». Così l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, metropolita di Lombardia, scrive nella prefazione al volume.
Si tratta di un testo che raccoglie le storie di sedici persone che hanno contratto il Coronavirus. Sedici storie che hanno nell’esperienza della malattia il denominatore comune. Ma questo è solo un primo livello del discorso. Perché c’è qualcosa di più profondo, ad accomunarle: la dimensione della testimonianza. Ecco: quelle sedici persone – padri e madri di famiglia, professionisti e operai, medici e infermieri, laici ma anche preti e, fra loro, pure un vescovo, quello di Cremona – sono innanzitutto dei testimoni.
C’è chi è guarito e ha potuto raccontare a De Carli la sua esperienza in prima persona. E c’è chi non ce l’ha fatta, e la sua storia è affidata alla voce di chi l’ha conosciuto, affiancato, amato. Ma tutti e sedici – chi è tornato alla vita dopo aver rischiato la morte, chi ha ricevuto il dono di una vita nuova – hanno in comune il fatto – usando il linguaggio dell’Apocalisse al quale attinge il titolo del libro – di essere passati attraverso la «grande tribolazione» e di aver lavato le proprie vesti «rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
La «grande tribolazione» è la pandemia di Coronavirus che nella primavera del 2020 ha avuto in Lombardia l’epicentro italiano: e sono tutti lombardi, quei sedici (e c’è pure chi viene dalla “zona rossa” di Lodi), anche se le loro storie assumono un valore che supera ogni confine e appartenenza. La «veste candida» è segno del martirio. Inteso nel suo significato autentico di testimonianza. Perché questo, sono i sedici del libro: testimoni. Non parlano di sé e per se stessi, ma agli altri e per gli altri. Con le loro storie di malattia, sofferenza, solitudine, solidarietà, che per alcuni sono culminate nella guarigione, per altri nell’agonia e nella morte, questi testimoni provocano la nostra intelligenza, la nostra libertà, il nostro cuore, la nostra fede. In queste storie si mette in gioco il senso della vita e delle relazioni fondamentali con gli altri, con noi stessi, con Dio. Sono testimonianze che chiamano a «una sapienza più alta», come riconosce l’arcivescovo Delpini. E lo fanno non con i discorsi edificanti, ma con il racconto di esperienze concrete, spesso drammatiche, sempre commoventi, dove nella tragedia della pandemia riescono a insinuarsi i raggi di sole di una solidarietà, un sorriso, una speranza. Incontrati camminando “nella compagnia” di amici e familiari, di medici, infermieri, cappellani. E di Dio. Ecco: la famiglia e la fede sono i due appigli sicuri nella prova della malattia che queste storie restituiscono. Messi a dura prova, certo. Ma alla fine affidabili. Il libro, inoltre, mostra il tanto bene nascosto, accaduto nei mesi terribili della prima ondata della pandemia. E sono, tutti questi, beni preziosi per il nuovo tempo di prova, con la pandemia che torna a farsi minacciosa e letale.
Il libro, inoltre, raccoglie e restituisce storie di persone sconosciute al grande pubblico. Solo la malattia e la guarigione del vescovo di Cremona, Antonio Napolioni, e il sacrificio di Gino Fasoli – medico in pensione rientrato in servizio per aiutare i colleghi in emergenza, e ucciso dal virus – hanno avuto una qualche risonanza mediatica. Per il resto: nel libro si incontrano madri e padri, lavoratori, pensionati, sacerdoti, persone diversamente abili, volontari, tutti ignoti al circo mediatico. E dello stesso Fasoli sono offerti tratti e pagine inediti. A proposito dei volontari: l’impegno nell’Unitalsi, della cui Sezione Lombarda è presidente De Carli, è uno dei tratti che accomuna persone e storie narrate in queste pagine. Ebbene: nel 2021 l’Unitalsi Lombarda celebra i suoi cent’anni di vita. Farlo nello scenario drammatico di questa pandemia diventa – anche con l’aiuto del libro di De Carli – un’occasione per approfondire e rinnovare l’identità e la missione dell’Unitalsi. La sua testimonianza di carità, servizio, prossimità. Ed è emblematico che De Carli abbia voluto dedicare il libro ad una persona che ha vissuto l’amore per gli ultimi nel nascondimento e fino al dono totale di sé: don Roberto Malgesini, il prete della diocesi di Como ucciso il 15 settembre 2020 da uno dei poveri che aiutava. Lui, la sua «veste bianca», l’ha indossata ogni giorno senza che nessuno se ne avvedesse. Ed è una nuova testimonianza, a illuminare il cammino di ciascuno alla scoperta che davvero «c’è una veste bianca anche per noi».
Read MoreIl numero di dicembre di Charitas anche online
Visto il momento di difficoltà che stiamo attraversando e al fine di facilitare la lettura del nostro periodico il consiglio di Sezione ha deciso di pubblicare il numero di dicembre anche su portale dell’associazione.
Buona lettura
LEGGI IL NUMERO DI DICEMBRE
Read MoreUnitalsi anziani e disabili ai tempi del Coronavirus: emergenza nell’emergenza
Domenica 13 dicembre, alle ore 18,15, Radio Mater apre le proprie frequenze all’appuntamento mensile con l’Unitalsi.
Da oltre sei anni l’Unitalsi, Sezione Lombarda, mensilmente è presente con una propria rubrica dal titolo “Per Maria a Gesù”, una trasmissione mariana di fede e testimonianza a cura di Adriano Muschiato e condotta da Vittore De Carli.
Domenica prossima il filo conduttore sarà Unitalsi anziani e disabili ai tempi del Coronavirus: emergenza nell’emergenza, l’esperienza dei nostri fratelli sofferenti sul territorio lombardo, in particolare nelle sottosezioni di Como, Merate, Monza e Milano, attraverso la testimonianza di Luigi Rocca, Davide Cacciatori, Ettore Andreoni e Patrizia Marando che racconteranno ai radioascoltatori di Radio Mater come stanno vivendo quotidianamente nelle loro case questo momento di difficoltà, l’importanza degli affetti più cari e quegli degli amici dell’Unitalsi, anche in prossimità del Santo Natale
Non può mancare la parte spirituale “In prossimità del Santo Natale” è il tema che svilupperà padre Corrado Brida, frate cappuccino. Entrato in seminario con i Cappuccini a 11 anni, è stato ordinato sacerdote a 24 anni. La sua storia si lega in particolare con i 22 anni trascorsi come cerimoniere nel santuario di Loreto, dove padre Corrado era noto, oltre che per la sua dedizione ai pellegrinaggi per gli ammalati, per gli “assoli” con cui accompagnava le liturgie mariane. Celebre la sua interpretazione del canto di origine polacca «Madonna Nera», un brano che ha anche inciso su un dvd di canti lauretani.
Infine, con Graziella Moschino, parleremo del sito della sezione Lombarda con la recente pubblicazione dell’opera “Sempre insieme, lontani ma vicini – Meditazioni spirituali ai tempi del Coronavirus” curata dalla stessa vicepresidente regionale.
In un momento straordinario, quello dell’emergenza COVID-19 e del conseguente lockdown, in cui l’ordinario a cui eravamo abituati ha lasciato il posto a una nuova dimensione di spazio e relazioni, la necessità di sentirsi sempre e ancora più di prima “insieme” ha spinto tutti a utilizzare nuovi strumenti di comunicazione e di preghiera. Da questa necessità l’UNITALSI Lombarda ha dato vita a una serie di incontri virtuali, tramite l’utilizzo della piattaforma Zoom Call, durante i quali l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, e i vescovi della Lombardia hanno donato le loro catechesi per infondere conforto e speranza nei fedeli. Gli interventi dei Vescovi sono stati successivamente riuniti nella presente opera per tenere traccia della fede e della forza dimostrata dalla Chiesa e dai fedeli anche nei momenti di grande difficoltà.
Spazio aperto poi alle telefonate degli ascoltatori che vogliono intervenire portando il proprio contributo al dialogo. Un’occasione per dare voce alle esperienze associative, a chi vive la realtà della malattia o della disabilità, a chi si trova ad affrontare il tempo della solitudine e della sofferenza, e insieme il tempo dell’amicizia, dell’aiuto fraterno, della gratuità che si fa dono e si riceve come dono.
È possibile seguire la trasmissione dalle frequenze di Radio Mater e via internet su www.radiomater.org
Read MoreLourdes e la pandemia
Conferenza zoom Unitalsi Lombarda – 23 novembre 2020
Introduzione
La pandemia da Covid-19 ha travolto tutto e tutti come un’onda d’urto che ha sommerso l’intera umanità. Espressioni enfatiche come “niente sarà come prima” o “andrà tutto bene” stanno perdendo forza e lasciano spazio a sentimenti diversi. Siamo passati dalla noncuranza allo sgomento e poi alla paura, alla fatica, al dolore, allo strazio. Abbiamo avvertito ammirazione per medici e infermieri e tutti coloro che si sono adoperati e si stanno adoperando ancora per curare, salvare, sostenere e rassicurare.
Su tutti ha dominato e domina un sentimento di solidarietà che ancora una volta ci ha stupito, allargato il cuore: un sentimento che non vorremmo veder svanire man mano che diminuisce il pericolo, e speriamo prima possibile. Come inciderà questa stagione 2020, dopo la quale – a detta di molti – nulla sarà come prima?
L’oscurità, la solitudine, l’abbandono, il dolore, la sofferenza, la malattia e la morte, il senso di impotenza, lo strazio, la disperazione, hanno interrogato molti su Dio e, come i discepoli sulla barca evocata dal Papa, in quel tremendo venerdì 27 marzo sul sagrato della Basilica di San Pietro, anche noi abbiamo avvertito l’intensità della drammatica domanda posta a Gesù che dorme: «Non ti importa che siamo perduti? ». È dunque possibile sviluppare qualche riflessione per ripensare il modo con cui vivere l’esperienza di Lourdes? Non è facile tentare una risposta esaustiva, perché a tutt’oggi non vediamo ancora la fine. Tuttavia non possiamo esimerci dal riflettere.
La pandemia a Lourdes
È noto a noi tutti: il diffondersi del virus e le conseguenti misure adottate hanno portato alla decisione di chiudere completamente il santuario. I cancelli sono stati chiusi dal 17 marzo al 16 maggio 2020. Attualmente il santuario è nuovamente chiuso. Tuttavia, rispetto alla prima chiusura, la porta di san Giuseppe è sempre aperta per permettere ai pochi pellegrini di entrare e di recarsi alla basilica del rosario dove è stata di nuovo proposta l’adorazione, la possibilità di confessarsi, due sacerdoti sono sempre disponibili tuta la giornata abbiamo scese anche le reliquie di Santa Bernadette. Inoltre è possibile recarsi ai rubinetti per prendere l’acqua. La grotta è chiusa ai fedeli, ma lodevolmente il rettore ha riproposto la cosiddetta “Preghiera continua alla grotta“, assicurata dai cappellani, dalle otto del mattino fino alle venti della sera. Una preghiera che si è leva al cielo, offrendo a Maria le infinite intenzioni di preghiera che ci giungono da ogni parte del mondo. Di fronte a questa realtà, è possibile trarre qualche insegnamento?
L’incontro tra la Vergine e Bernadette
Dalla prima apparizione fino alla diciottesima, il rapporto che si instaura tra Bernadette e la Bella Signora, è esclusivamente personale. Via via, lungo il corso dei mesi, alla grotta si aggiungeranno prima decine di persone, poi centinaia fino a raggiungere le migliaia. D’altro canto, la relazione tra le due giovani donne, sarà un “tu per tu”, sempre unico e personale. In occasione della terza apparizione, “Aquerò” dirà a Bernadette: «Volete farmi la grazia di venire qui per quindici giorni?». Si tratta di andare alla grotta. Bernadette obbedisce a questa richiesta e lì sperimenta una grande pace e abbondante felicità. Infatti a Lourdes, da nessuno era considerata e valorizzata, perché analfabeta, povera, insignificante. Alla grotta invece si sente felice, si sente a casa. Perché? Perché lì è accolta, amata, compresa, rispettata! Inoltre vive una grande pace interiore, segno di una relazione serena, appagante, compiuta. Sta qui il segreto di Lourdes: sperimentare la pace interiore e la gioia, proprio lì, davanti a quella nuda grotta!
Infatti Bernadette testimonierà che proprio lì, la Vergine la «guardava come una persona guarda un’altra persona», cioè con rispetto e considerazione. Ciò indica la presenza di uno sguardo unico, attento a valorizzare la presenza dell’altro. Infatti, pur essendovi molte persone, talvolta ingombranti, la relazione è segnata da un’estasi che esprime comunione, intensità e amicizia. Lourdes è anzitutto caratterizzata da questo primo dato: la relazione piena ed appagante tra due persone, in quel luogo chiamato la “tana dei maiali”. «Lourdes ha l’unicità di essere un luogo in cui Maria parla a tu per tu… la storia di due ragazze più o meno della stessa età, così familiare e naturale che ci sembra strano che una delle due sia addirittura la Vergine Maria… Ella si rivolgeva a Bernadette, analfabeta, con una tale rispetto, da darle del “voi”». Ne sono testimonianza anche i dialoghi intercorsi, i sorrisi ed i segreti che Bernadette ricevette e che mai rivelò ad alcuno.
Pur di fronte alle difficoltà che sempre più aumentavano e le impedivano di recarsi alla grotta, lei sentirà forte l’impulso di recarsi là e niente e nessuno riuscì a trattenerla. Bernadette dirà più volte: «La grotta è il mio cielo», un luogo di pace, di incontro, di gioia e di raggiunta felicità. Non dovremo forse (anche noi) ripartire da lì?
Quale insegnamento trarre?
Prendo lo spunto da quanto mi chiedeva al telefono qualche giorno fa S. E. Mons Roberto Busti: siamo quasi spaventati da questo deserto, simile a quello che Mosè ha dovuto attraversare con il popolo sceltosi da Dio e che oggi vediamo nel luogo dell’Apparizione e intorno a noi. Come possiamo affrontare al meglio questo tempo?
a. Un primo insegnamento: partendo dall’esperienza vissuta ci si rende conto in maniera evidentissima che nulla può essere dato per scontato, neppure i gesti più minuscoli e quotidiani. Siamo altrettanto consapevoli che il rischio di un’inerzia strutturale, della semplice ripetizione di ciò cui siamo abituati è sempre in agguato. Giustamente ci si ripete: «Nulla sarà più come prima».
Utilizzo un’icona biblica, oggi siamo nella situazione dell’esodo. Il popolo d’Israele, dopo la celebrazione della Pasqua, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, dopo il passaggio del Mar Rosso, vive per ben quarant’anni l’esodo, un periodo di prove terribili, di tentazioni, di smarrimento e dubbi riguardanti la fedeltà e la presenza del suo Dio. Giustamente la prova per la necessaria purificazione, onde divenir liberi da ogni sorta di nostalgia e sguardo al passato, per diventare liberi per servire e riconoscere Dio con cuore e mente rinnovata. È il tempo dell’esodo, cioè dall’uscita di alcune certezze che erano o forse sono ben consolidate.
Ancor più, siamo sotto il segno dell’esilio. Come per l’antico Israele deportati dalla loro terra, ormai senza casa, senza tempio, senza altare e senza esercizio del sacerdozio.
Questa è stata l’esperienza iniziale della chiusura totale. Privati di tutto ciò che ci era abituale e scontato.
A nostra volta, certi delle nostre sicurezze e abitudini, abbiamo celebrato e vissuto senza troppi intoppi. Tutto ci era naturale e ovvio. Abbiamo organizzato i nostri pellegrinaggi, le celebrazioni, le feste insieme agli ammalati, i volontari, gli accompagnatori. L’organizzazione era ormai ben avviata e le persone ben presenti. Improvvisamente tutto si è bloccato e, di conseguenza, tutto va ormai ripensato. Ecco l’esodo, cioè l’uscita, che siamo chiamati a compiere.
Allora, come possiamo affrontare al meglio questo tempo? Ripiegandoci, lamentandoci, suscitando ancor più la paura? Questa è la modalità umana che non condurrà a nulla. Per noi, uomini e donne di Fede, questo tempo ci invita fortemente a rinnovare la Fede e la speranza, non nel senso “speriamo di cavarcela”, ma credendo ancor più che Dio è lì presente, fedele, attento e non abbandona.
Oserei dire che si tratta di una messa alla prova della speranza, non banalmente, ma seriamente. C’è un salmo che dice: «Per l’insulto dei miei avversari sono infrante le mie ossa; essi dicono a me tutto il giorno: “Dov’è il tuo Dio?“» (42,11). Forse non solo gli avversari, ma anche noi ci chiediamo: «Dov’è il nostro Dio?». Lo stesso salmo prosegue dicendo: «Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio» (42,6).
b. Una seconda domanda: Come possiamo attingere ancora al messaggio di Dio e come possiamo portare avanti la sua Parola? Ecco un tentativo di risposta.
Pur essendo un incontro unico ed esclusivo, quello tra Bernadette e la Vergine, fin da subito, alla grotta di Massabielle, arrivarono i malati. Ne danno testimonianza le cronache e i resoconti del tempo. Con le prime guarigioni, la voce si sparse e sempre più affluirono persone sofferenti alla ricerca di un miracolo. In tal modo, Lourdes si è sempre più caratterizzata e distinta per la presenza dei malati e l’organizzazione dei pellegrinaggi. L’Unitalsi ne è la evidente testimonianza. Ora forse è necessario rivedere tale impostazione. Ci si dice che Lourdes senza i malati non è Lourdes ed è vero. Tuttavia, questo momento critico ci obbliga a ritrovare il messaggio principale. La sfida sta proprio qui: ritornare lì, alla grotta! Lì non siamo solo presenti per rendere un servizio al malato, giustamente lodevole e necessario, ma per porci davanti a Dio, rivedendo la nostra esistenza, approfondendo la nostra Fede; non a Lourdes per servizio o lavoro, ma per un nuovo incontro e un rinnovato ascolto. Attualmente alla grotta non si sente il chiasso disturbante delle chiacchiere, ma bensì il brusio discreto della preghiera.
Inoltre, possiamo essere alla grotta con tutto ciò che siamo, la totalità della nostra esistenza, impastata di bene e di male, di luce e di tenebra. Alla grotta c’è una sorgente e il fango che imbratta il nostro volto può essere lavato e noi essere purificati, sanati e salvati. Qui sta la posta in gioco per ritrovare ragioni fondate per ritornare in pellegrinaggio alla grotta.
Non è forse questa la conversione che la pandemia oggi ci chiede? Non si disdegna la preparazione e l’organizzazione, ma ora sarà opportuno puntare su un aspetto più personale. Sono in pellegrinaggio a Lourdes per il mio cammino di Fede! Lì puoi essere te stesso, senza infingimenti (finzione, simulazione) o mascheramenti inutili, puoi essere accolto nella tua povertà, come fu delicatamente accolta Bernadette. Lì sei figlio accolto da una Madre che ha reso visibile un lembo del cielo, lì puoi essere libero dalle tue paure e confidare nel Padre che abbraccia e perdona. Quante volte molte persone ci testimoniano che qui hanno vissuto momenti significativi del loro percorso spirituale, ritrovando pace interiore, forza nelle difficoltà, discernimento per le loro scelte di vita (e anche tanti confratelli sacerdoti).
Quindi un aspetto molto personale dell’itinerario di Fede, fatto di ascolto e di preghiera! Si tratta di un messaggio a tu per tu. Anche questo è Lourdes. Senza nessun tipo di distrazione anche il servizio qualche volta potrebbe distrarci
c. Una terza domanda: in questi tempi in cui non possiamo raggiungere la grotta con i nostri ammalati e pellegrini, come possiamo mantenere vivo il messaggio di Lourdes?
Durante l’ottava apparizione, precisamente il 24 febbraio 1858, Maria dice:«Penitenza, penitenza, penitenza» e «Pregate Dio per la conversione dei peccatori». Ora, la pandemia non è un castigo, ma sicuramente un appello alla conversione. In tal caso, l’appello è veramente globale: non solo perché investe tutti, ma perché investe la vita nel suo insieme e in tutte le sue dimensioni. La conversione non è semplicemente un cambiamento e tanto meno un aggiustamento: si tratta di riorientare l’esistenza personale e ecclesiale in direzione di Cristo, secondo le linee tratteggiate dal Vangelo, assecondando l’azione dello Spirito Santo.
Scrive Papa Francesco: «Il Signore ci chiama a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è […]. È anche il tempo della creatività, nel quale lasciar operare più che mai lo Spirito Santo […]. È un tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci».
Ho trovato questa significativa testimonianza che desidero condividere con voi. Mons. Calogero Peri, vescovo di Caltagirone, è stato contagiato da Coronavirus ed ha trascorso in ospedale più di un mese, sperimentando l’esile distanza tra la vita e la morte. Scrive così: «Dall’esperienza della malattia è stato per me importante e di grande aiuto, il desiderio di essere solidale con la paura di tutti, di essere vicino al disorientamento di tutti, di non sentirmi e di non far sentire nessuno solo, cercando sempre di vivere tutto con la coscienza che, però, dipendeva da me scegliere in che modo volessi vivere quello che di giorno in giorno si presentava. Non potevo sapere in anticipo quale direzione avrebbe preso la mia malattia, se quella della vita o quella della morte, però stava a me, in qualunque strada si fosse incamminata, decidere come viverla e soprattutto per chi viverla».
È possibile tenere vivo il messaggio di Lourdes: la conversione alla quale siamo chiamati è quella dello stare accanto, non in termini di organizzazione o forse di prestigio, ma bensì con la presenza silenziosa e discreta. Non risolvo sempre il problema dell’altro, del malato, del diversamente abile, ma posso essergli accanto come una presenza ascoltante, che infonde speranza e lascia liberi. La penitenza, in tal caso, è che a mia volta mi riconosca piccolo, malato e bisognoso di guarigione. Non è forse vero che talvolta il mio “io” è ingombrante e seminatore di divisione? Lourdes mi chiede di uscire da tale condizione e non è poco. Ricordiamoci della piccolezza di Bernadette, ma in verità della sua grandezza.
Conclusione
«Venite in disparte, in un luogo solitario e riposatevi un po‘» (Mc 6,31). Gesù aveva mandato i suoi discepoli in missione ed essi, ritornando, raccontano quanto accaduto. Allora Gesù chiede loro di ritirarsi con lui dopo le fatiche della predicazione. È necessario lasciare le folle e ritrovare la relazione feconda con il Maestro. Prima della pandemia noi tutti eravamo ben impegnati nel nostro abituale lavoro, nei nostri impegni, nell’organizzazione frenetica. La vita sembrava non doversi mai più fermare. Di colpo tutto si è bloccato: non solo abbiamo dovuto fermarci, ma ancor più siamo stati confinati, quasi murati nelle mura delle nostre case. Tale esperienza vissuta, non va solo riconosciuta, va soprattutto interpretata. Se non si sa dove andare, non è facile trovare la voglia e la forza di uscire e di mettersi in cammino. Se non si spera in qualcuno che ci attende e in un luogo dove approdare, è difficile buttarsi alle spalle abitudini e sicurezze e darsi un orizzonte nuovo. Se si pensa di avere capito tutto di se stessi, dell’umanità e persino di Dio, nulla inquieta, nulla attrae e tutto appare scontato. Abbiamo bisogno di esercitare la pazienza, come virtù. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.
Come ben dice Papa Francesco in una sua omelia: «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi […]. Gli eventi belli e tristi richiedono discernimento e profondità di riflessione per poterci insegnare qualcosa di buono. Se, invece, sono affrontati con superficialità, ci lasciano tali e quali, anzi fanno di noi delle persone ripiegate su se stesse e sulle proprie convinzioni, piuttosto che aperte a quello che Dio ci chiede qui ed ora […]. L’esperienza della pandemia ha lasciato scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Saremo disposti a cambiare i nostri stili di vita?». A ciascuno di noi la sua risposta! Grazie per avermi dato questa possibilità, grazie per avermi ascoltato e che la Madonna ci tenga per mano e il buon Dio ci tenga sempre la mano sulla testa.
Read MoreGiornata dell’Adesione 2020 – #GA2020
Domenica 29 novembre 2020 (prima domenica di avvento) vivremo insieme la Giornata dell’Adesione 2020, un momento di preghiera, di speranza e fraternità.
L’evento sarà trasmesso in streaming sui nostri canali social, Facebook e Instagram, e sul nostro Sito Internet per permettere a tutti gli Unitalsiani e le Unitalsiane di partecipare da remoto, tramite i mezzi di comunicazione a loro disposizione (computer, cellulare, iPad, tablet) per continuare a vivere distanti ma uniti!
Read More«Fondiamo 3 nuove banche: del tempo, del sorriso, delle storie. Banche che Unitalsi ha da 100 anni»
Si è svolta, in modalità Zoom, l’assemblea regionale per i 100 anni dell’Unitalsi lombarda a cui ha partecipato, con una sua meditazione, l’Arcivescovo. Presente anche Giuseppe Maino, presidente della BCC-Milano, l’Istituto che sta sostenendo il “Progetto dei Piccoli”
di Annamaria BRACCINI
La banca del tempo, del sorriso e quella della speranza, tanto reali, per chi fa il bene, quanto le banche che sul territorio, concretamente, operano, ascoltando i bisogni dei più fragili e sostenendo le necessità, così come fanno, da più di un secolo, gli Istituti di Credito Cooperativo-BCC.
L’Assemblea regionale dell’Unitalsi lombarda, riunita in modalità Zoom con la partecipazione dell’Arcivescovo e del presidente della BCC-Milano, Giuseppe Maino – la Banca sta sostenendo l’importante “Progetto dei Piccoli” unitalsiano -, è anche questo: un modo per confrontarsi sul momento presente, sulle sfide che attendono domani, consapevoli di 100 anni di storia e decisi a continuare con sempre maggior forza e impegno.
Il primo saluto – sono collegati 23 presidenti di Sottosezione più alcuni consiglieri eletti – «e l’augurio, anzitutto, per l’Arcivescovo, anche per i suoi interventi di speranza che fanno risuonare la Parola di Dio», viene da monsignor Roberto Busti, vescovo emerito di Mantova e assistente della sezione lombarda Unitalsi. «Questa assemblea del centenario non può essere solo un ricordo, ma è un guardare avanti», dice.
È, poi, la volta del presidente della Sezione, Vittore de Carli.
«Oggi iniziamo il 2021, anno di festa per l’Unitalsi lombarda: sono 100 anni di vita, di impegno, di gioia e di memorie. Tanti sono i modi per celebrare il secolo di vita di un’Associazione: medaglie commemorative, convegni e discorsi, feste, pranzi. All’Unitalsi lombarda è toccato un modo molto particolare: una pandemia». Giorni, mesi di difficoltà come nel 1921 – «quando nasceva, in un’Italia ancora sconvolta dalle ferite di una lunga guerra e nell’incertezza di una difficile pace sociale. Ferite ed insicurezze diverse, oggi, per le quali, più che mai, occorre avere punti saldi di riferimento, sia nella vita civile che in quella delle nostre comunità».
Il richiamo è alla pandemia che, solo in questa settimana, ha visto la scomparsa di 8 soci dell’Associazione, tra cui 3 sacerdoti, e che ha colpito Unitalsi nel suo compito fondante: il pellegrinaggio ai Santuari mariani.
«Siamo ricchi di esperienze e tradizioni che provengono da una storia costruita in 100 anni e insieme ci dobbiamo presentare poveri di fronte al futuro, pronti a imparare e a metterci in discussione, individuando nuovi campi di azione e metodi di prossimità a coloro che, anche nel variare dei tempi, sono nella difficoltà e nella malattia. Abbiamo la gioia di essere e di avere tanti amici che ci staranno vicini in questa opera di rifondazione».
L’intervento dell’Arcivescovo
Amici come monsignor Delpini che, avviando la sua meditazione di incoraggiamento – come la chiama -, esprime «gratitudine, affetto e apprezzamento per il patrimonio che Unitalsi ha accumulato in questi 100 anni. Patrimonio che rende ricchi e fieri gli unitalsiani».
Prendendo spunto dalla presenza del presidente Maino «alla guida di una banca di Credito cooperativo, che non ha lo scopo di arricchire azionisti, ma di mettere a disposizione risorse per il territorio, destinandole a opere utili», il vescovo Mario, propone, così, di fondare altre 3 banche
Anzitutto, «la banca del tempo, un istituto dove depositare il tempo che avremo, che richiede quell’arte difficile che è dare una regola al tempo. Depositare il tempo è un modo per dire: “Io ci sono, puoi contare si di me”. Non è un momento di entusiasmo momentaneo, ma è prendere un impegno. Mi pare che Unitalsi abbia imparato a gestire con molta sapienza questa banca».
Banca simbolica i cui soci sono i volontari «che depositano il loro tempo. Banca strana, ma necessaria che è propria di chi lavora per l’eternità, rendendo un premio che non è calcolabile, perché le opere che abbiamo compiuto sono scritte nella vita eterna. Banca da vivere con uno spirito di appartenenza su cui si può contare».
Poi, «la banca del sorriso. Banca che non ha orari, che non fa preferenze, che non pone condizioni, permettendo solo alla gioia di apparire sul volto. Non è un Istituto, è piuttosto un investimento; chi ha un sorriso da donare lo regala, per esempio in ufficio, lo deposita, lo invia lontano, si serve della rete per farlo giungere anche dall’altra parte del mondo, ma l’investimento più efficace è quello che si compie di persona, nei rapporti ordinari, nelle amicizia durature, nelle forme di alleanza che si stabiliscono come nei pellegrinaggi. Seminiamo sorrisi perché si moltiplicano, perché chi ha meno sorriso possa raccogliere quello di chi ne ha di più. Oggi la maschera di malumore sembra nascondere la possibilità del sorriso in noi, tempio dello Spirito santo. Semina un sorriso e sorriderà l’intera terra dove abiti», aggiunge l’Arcivescovo, sottolineando l’incongruità di atteggiamenti tanto diffusi di scoraggiamento, per cui «in Italia pare quasi che vi sia una frattura tra l’essere fieri di sé, di quello che si fa, del bene che si offre e, invece, l’esprimere tristezza e disperazione».
Infine, «la banca delle storie, un sorta di credito cooperativo dove posso depositare la mia storia, perché grazie alla mia esperienza, qualcun altro sarà aiutato a scrivere la sua storia. Depositare storie è un’opera complessa perché chiede di interpretare il vissuto, di dare un nome ai sentimenti, alle lacrime, alla gioia, comunicandole in maniera comprensibile». Insomma, un esercizio difficile, ma che «semina speranza», come il libro scritto da Vittore De Carli, “C’è una veste bianca anche per noi” (Lev, 2020) con le sue 16 storie.
«Un libro come questo è una banca che dispone di un patrimonio inesauribile, anche perché ogni storia, già scritta e finita, diventa una storia che comincia, che continua, che si sviluppa in chi la legge».
«Vorrei invitare a celebrare questo centenario con l’impegno a sviluppare queste tre banche che l’Unitalsi da 100 anni ha fondato: la banca del tempo, la banca dei sorrisi e la banca delle storie. Con l’aiuto della Banca di Credito Cooperativo possiamo edificare una nuova sede delle tre banche: il “Progetto dei bambini”, una casa dove si deposita un po’ di tempo, perché chi ne ha bisogno sappia che può contare su qualcuno, una casa dove si seminano sorrisi perché possano crescere alberi di gioia, una casa dove si depositano storie perché chi si sente confuso e perduto possa dare un nome a quello che vive e farne una storia».
Un auspicio raccolto dal presidente Maino che ha illustrato brevemente la nascita delle BCC – sulla scia della prima Enciclica sociale della Chiesa, “Rerum Novarum” promulgata da Leone XIII nel 1891 – e della BCC Milano, fondata da don Enrico De Gasperi, arciprete di Carugate, nel 1953. .
«Ci impegniamo a intercettare i bisogni che vengono dal territorio, privilegiando i soggetti più deboli, gli anziani, i bambini, famiglie in situazione di bisogno».
«Siamo Banca del territorio», sottolinea Maino, evidenziando «l’attenzione e il sostegno puntato, negli ultimi 3 anni, sulla città metropolitana, a fianco del Pime, della Fondazione “Ca’ Granda”, dell’Istituto dei Tumori, del Comune di Milano, del Banco alimentare per la diffusione di hub per ridistribuire le eccedenze di cibo». E, naturalmente a fianco di Unitalsi con il “Progetto ei Piccoli”, una casa intitolata a Fabrizio Frizzi, per cui migliaia di soci della banca hanno rinunciato al loro dono tradizionale natalizio, attraverso l’iniziativa “Il valore del dono Natale 2020”, per raccogliere risorse per il progetto». Struttura che nascerà – vi è già il via libera della Curia e della Soprintendenza per iniziare i lavori – presso la Casa parrocchiale dell’antico Santuario della Madonna delle Grazie, nel quartiere milanese dell’Ortica.
«La malattia non guarda in faccia nessuno. Ci commuoviamo quando vediamo dei bimbi malati, ma dobbiamo stare vicini anche ai genitori e aiutarli. In questo momento un sorriso nell’accoglienza serve più che mai», conclude De Carli, annunciando il futuro pellegrinaggio a Lourdes con l’Arcivescovo previsto per il 21-24 settembre 2021.